IL PIPISTRELLO DI TRIESTE NON CONVINCE
Il Pipistrello, ultimo spettacolo della stagione lirica in scena al Verdi, poteva essere l’occasione di un ritorno della tradizione operettistica a Trieste. Ci siamo illusi che lo spettacolo, affiancato da un paio di concerti di “sostegno”, potesse costituire il risveglio istituzionale verso un genere che è stato momento di gloria e orgoglio per la capitale italiana della piccola lirica. Il pubblico c’è e lo ha dimostrato riempiendo il Politeama Rossetti in ben due diversi galà, andati in scena in aprile e ai primi di giugno. Al Verdi di Trieste manca ormai da tempo lo spirito e la consapevolezza dell’identità della città giuliana. Sembra quasi che guardare al proprio passato sia vissuto come un peccato verso il futuro, strano che ciò avvenga dopo che un articolo sul Wall Street Journal abbia decantato proprio questo enigmatico fascino antico della città e dopo che mezzo mondo letterario, non solo italiano, abbia indagato sulla eccezionalità di Trieste. Dopo de Banfield e Gilleri senior si è via via rinunciato a celebrare la peculiarità della città, mettendo in discussione il senso dell’esistenza di un teatro lirico.
Abbiamo visto un Pipistrello privo di significato, spento e a tratti addirittura noioso. Cosa si fa se non si hanno idee? Ovvio, si cerca di stupire. E’ diventato uno sport nazionale, lo fanno i ragazzi che si tatuano, quelli che si rasano le teste lasciandosi una cresta stile “ultimo dei mohicani” e lo fanno i registi che non sanno a che santo votarsi: come potrebbe spiegarsi altrimenti una scena che rappresenta un giardino d’inverno con tanto di giraffa e leone a grandezza reale, con palme, cespugli e piante di fronte ad una piazza Unità, cuore pulsante della città, in preda a una nevicata copiosa. Un giardino d’inverno in una collocazione in cui nella realtà c’è il mare che fu così importante per l’impero asburgico. Chi ha pensato e riscritto questo spettacolo dimostra di non aver capito niente di Strauss, di Vienna, dell’operetta e di Trieste. Fa cantare e recitare in tedesco, ma a Trieste tutti quanti parlavano il dialetto, come il veneziano era la lingua franca della città, nell’Adriatico si capivano così e non c’erano distinzioni tra ceti sociali. E quindi ancor meno si può scegliere di far parlare il tedesco ai ricchi nobili, far dire qualche parola in italiano alla cameriera e alla sorella ballerina, e poi creare un’unica peraltro divertente e riuscita gag, per merito dei suoi interpreti, tra il carceriere ubriaco che parla solo il dialetto e il suo capitano che del triestino non capisce neppure una parola. Anche la scena dell’orgia nella casa del principe Orlosky, che non c’è nella scrittura originale, è senza vita e toglie azione alla beffa ordita da Falke contro l’“amico” Eisenstein. L’operetta ha un programma musicale di tutto rispetto, partendo dalla splendida “Ouverture” che apre immediatamente allo splendido mondo viennese di fine secolo e conclude con l’altrettanto gioioso inno allo “Champagne” e alla gioia di goderne. Attraversa arie romantiche, csardas e pagine scanzonate come “Spiel’ ich die Unschuld vom Lande” di Adele. Il direttore però manca di dare forza e vigore ai più bei valzer nella storia della musica, che valsero a Strauss il titolo di “re”. Non ci sono i ballerini e i sontuosi vestiti delle dame che volteggiavano gaudenti e spensierate. Manca la percezione di cosa fosse la musica a quel tempo, nell’impero e a Trieste dove Strauss veniva a dirigere personalmente le sue composizioni. Non sono sufficienti le buone prove dei cantanti a far decollare questa rappresentazione, che appare confusa. Il pubblico applaude perché la musica è comunque tanto bella e gli artisti capaci di sostenere egregiamente il doppio ruolo di cantante e attore. Straordinaria la prova di Fulvio Falzarano (Frosch), che recitare un testo in dialetto, privo delle consuete banalità, forse l’unico vero frammento di Trieste. Unico pezzo da operetta quello interpretato da Eisenstain, la moglie Rosalinde e l’avvocato Blind (Andrea Binetti, paladino dell’operetta triestina), coinvolti in una musicale lite furibonda, con la coppia che cerca di parare fuori dalla porta il leguleio incolpato di aver fatto appioppare tre giorni di carcere in più al nobile, accusato di aver preso a schiaffi un usciere. Perché “l’Austria era un paese ordinato”.
Dirige l’Orchestra del Verdi Gianluigi Gelmetti, con la regia di Daniel Benoin. Ottima la presenza del Coro diretto da Fulvio Fogliazza. In scena Christoph Strehl (Eisenstein), Mihaela Marcu (Rosalinde), Merto Sungu (Alfred), Lina Johnson (Adele), Daniela Baňasová (Orlofsky), Zoltan Nagy (Falke), Horst Lamnek (Frank), Fulvio Falzarano (Frosch), Simonetta Cavalli (Ida), Andrea Binetti (Blind).
Rossana Poletti